Ostacoli Emotivi e mentali allo sviluppo spirituale

 

ISTITUTO DI PSICOSINTESI

(Cultura e Terapia)

OSTACOLI EMOTIVI E MENTALI ALLO SVILUPPO SPIRITUALE

AGGRESSIVITÀ E CRITICISMO

(Archivio Assagioli – Firenze)

RIUNIONE IV. 2-4-1938

Oggi esamineremo un altro dei più forti ostacoli che si frappongono alla realizzazione spirituale; l’istinto di autoaffermazione personale, con le sue manifestazioni aggressive. Tale istinto ha manifestazioni svariate, le une di carattere più impulsivo ed emotivo, le altre di natura più mentale. Le esamineremo insieme, anche perché spesso elementi emotivi e mentali si associano ed intrecciano in noi in modo complesso.

Fra le manifestazioni di carattere aggressivo possiamo annoverare l’antagonismo nelle sue varie forme: ira, collera, risentimento, condanna, biasimo, svalutazione e criticismo.

L’ira o collera è la reazione provocata da qualsiasi ostacolo o minaccia alla nostra esistenza e alla nostra autoaffermazione in qualsiasi campo. Il fatto che si tratti di una reazione “naturale” e spontanea non vuol certo dire che essa sia opportuna, e neppure che sia vantaggiosa agli stessi fini egoistici dell’autoaffermazione. Non di rado anzi essa riesce di danno evidente. L’ira è infatti pessima consigliera e – se non dominata – induce a violenze ed eccessi che – come il boomerang australiano – rimbalzano indietro su colui che li ha scagliati. Ciò è così ovvio che non occorre insistervi. Il guaio però è che nella pratica della vita spesso ci dimentichiamo delle cose più note ed elementari!

Un altro effetto dannoso dell’ira è quello di determinare la produzione di veri e propri veleni nel nostro organismo. Gli stessi effetti prodotti dall’ira in modo acuto, vengono poi prodotti anche dal risentimento, che si può considerare come un’irritazione cronica.

Ma ritengo opportuno soffermarmi soprattutto su di un aspetto della tendenza combattiva che per la sua natura sottile e insidiosa, per la sua enorme diffusione, e per i suoi effetti malefici, merita speciale attenzione.

Si tratta del criticismo, della tendenza, direi quasi della mania generale di biasimare e di svalutare in ogni occasione i propri fratelli.

Cerchiamo anzitutto di comprendere perché tale tendenza sia così diffusa e forte, perché tante persone – pur dotate sotto altri aspetti di qualità morali – si dedichino con ardore, direi quasi con entusiasmo, a criticare gli altri, e provino nel farlo un vero piacere che traspare da tutto il loro essere, dalle inflessioni della voce all’animazione dei gesti e allo scintillio degli occhi.

Una breve analisi psicologica ci darà facilmente ragione di questo fenomeno. Infatti, possiamo osservare come molte tendenze fondamentali dell’uomo trovino nel criticismo un grande appagamento. In primo luogo il criticare soddisfa il nostro istinto di autoaffermazione. Il riscontrare e mettere in evidenza le deficienze e le debolezze altrui ci dà un gradevole senso di superiorità, e solletica gradevolmente la nostra vanità e presunzione. In secondo luogo esso offre uno sfogo diretto alle nostre energie combattive, che mentre ci dà tutte le soddisfazioni di una facile vittoria senza esporci ad alcun pericolo (poiché il nemico è assente) ci sembra innocuo, anzi spesso doveroso, e sfugge quindi ad ogni freno e censura interna, ingannando la nostra coscienza morale.

Si aggiunga poi che per molte persone che devono subire senza reagire il dominio altrui, e che devono subire nella vita situazioni e condizioni a loro sgradite ma contro le quali non si possono ribellare, il criticismo costituisce l’unico modo con il quale possono dare libero sfogo alla loro ostilità e al risentimento repressi, l’unica valvola di sicurezza per diminuire la loro tensione interna. Questo fatto vale anche a spiegare perché il criticismo si trovi più sviluppato nel sesso femminile che in quello maschile (la constatazione non è mia). L’uomo ha infatti altri e peggiori modi per esplicare le sue tendenze combattive, e ne suole fare largo uso.

Infine il criticismo appaga – curioso a dirsi – per quanto in modo parziale e imperfetto, le stesse tendenze alla comunione con gli altri. Questo apparente paradosso non ci deve sorprendere troppo; la vita ci mostra infatti che ciò che più facilmente unisce e riconcilia fra loro delle persone e dei raggruppamenti umani è l’avere un reale o presunto nemico comune. Perciò non dobbiamo stupirci che gli uomini si procurino con facilità il piacere dell’affiatamento e dell’accordo col dire insieme male degli altri loro simili! Ma naturalmente in tali casi non si tratta di vere comunioni! Si tratta di accomunamenti illusori e superficiali, perché basati sulla separatività e non sull’unità e così, di solito, quel legame negativo si scioglie assai presto.

Così, nel campo del criticismo, avviene non di rado che Tizio e Gaio dicano male di Sempronio, e poco dopo Tizio con Sempronio critichino Caio, il che non esclude che se Caio e Sempronio si trovano insieme dicano male di Tizio. Invero l’atteggiamento psicologico del criticista sistematico, con tutta la sua ridicola presunzione, è ben caratterizzato da una frase arguta di un aneddoto inglese: “Due vecchi scozzesi fanno con compiacenza la rivista delle follie dei loro conoscenti. Quando hanno compiuto questo non breve lavoro, uno dei due osserva a mo’ di conclusione: “Insomma, amico mio, si può proprio dire che tutti gli uomini sono matti, all’infuori di te e di me… però anche tu qualche piccolo ramo ce l’hai…”.

Una particolare manifestazione del criticismo è costituita dalla derisione e dallo scherno. Tutti i novatori e i pionieri, sono stati derisi e considerati “matti”.

È bene notare che c’è una differenza sostanziale, spesso non riconosciuta, fra la derisione e l’umorismo. La prima è nettamente antagonistica, incomprensiva e spesso crudele. Invece il secondo è pervaso di indulgenza, di bontà e di comprensione. Consiste nel “vedere dall’alto”, nella loro vera luce e nelle loro giuste proporzioni, le debolezze umane. E il vero umorista sorride anzitutto di sé stesso.

Come ci si può liberare della tendenza a criticare?

Ci sono vari mezzi efficaci:

1. Trasformazione e sublimazione

La tendenza alla critica può venir trasformata in un’acuta e sapiente discriminazione. Tale discriminazione è non solo legittima, ma doverosa e necessaria. “Non criticare” non significa infatti, come alcuni ritengono, non accorgersi delle deficienze altrui, o chiudere volontariamente gli occhi di fronte ad esse, e tanto meno cedere passivamente alle altrui suggestioni. Tale assenza di discriminazione – propria di certe nature buone, ma troppo ingenue, ottimistiche e sentimentali – è causa di gravi errori e di penose delusioni.

Ciò che in realtà distingue il criticismo dalla sana discriminazione è l’atteggiamento interno di fronte alla scoperta delle altrui manchevolezze: mentre il criticista se ne compiace, più o meno coscientemente, il discriminatore invece se soffre. Egli non tende ad accentuarle e a propalarle, ma si sente mosso a compatire e ad aiutare le persone manchevoli, e, lungi dal pavoneggiarsi della sua superiorità, egli vorrebbe che l’altro fosse uguale o superiore a lui, e lavora e prega per il suo ravvedimento. Se talvolta, per amore della verità, il discriminatore spirituale deve dichiarare apertamente il suo dissenso, deve ammonire e mettere in guardia, deve difendere una causa, un’istituzione, o una persona ingiustamente attaccata, egli lo fa con coraggio e fermezza, ma sempre in modo sereno e impersonale, senza scendere ai livelli né ad usare i metodi di lotta dell’avversario.

2. Sviluppo delle qualità opposte

Queste qualità possono essere divise in tre gruppi. Il primo comprende la bontà, la dolcezza, la generosità e l’amore. Si noti bene che non intendiamo di parlare della pseudo bontà passiva, debole e sentimentale, bensì della vera bontà spirituale, che è potente, dinamica e irradiante. È la bontà di un San Francesco d’Assisi, che ammonisce il lupo di Gubbio e molti “lupi umani”; è la bontà del suo omonimo San Francesco di Sales, la mitezza e dolcezza imperturbabili che operano migliaia di conversioni.

Il potere della dolcezza è del resto riaffermato anche da un arguto proverbio toscano: “Si prendono più mosche in una goccia di miele che con cento barili di fiele!”. Tutto ciò è così evidente che è superfluo insistervi. Anche in questo caso si tratta “soltanto”… di mettere in pratica.

L’altro gruppo di qualità è costituito dall’apprezzamento, la lode, la gratitudine e l’accentuazione costante degli aspetti buoni delle cose, degli uomini e delle circostanze. Tale accentuazione è ciò che di solito viene chiamato “ottimismo”; ma non si tratta di un ottimismo panglossiano, cieco e superficiale. Si possono vedere ben chiari tutti gli aspetti, anche quelli oscuri e negativi della vita, ma poi volgere coscientemente l’attenzione, l’interesse e l’apprezzamento verso quelli positivi.

Secondo un motto di Alphonse Karr: “Il pessimista vede le spine sotto la rosa, l’ottimista vede la rosa sopra le spine”. O, usando un’altra immagine: “un bicchiere pieno a metà è considerato dal primo mezzo vuoto, e dal secondo mezzo pieno”.

Tale atteggiamento è state espresso poeticamente da Vittoria Aganoor Pamphili nel seguente dialogo fra San Francesco e un suo frate:

Santo Francesco, un tristo parmi udire

fischiar di serpi sotto gli arboscelli”.

Io non odo che il placido stormir

della pineta e l’inno degli uccelli”.

Santo Francesco, vien per la silvestre

via, dallo stagno, un alito che pute”.

Io sento odor di timo e di ginestre,

io bevo aria di gioia e di salute”.

Santo Francesco, qui s’affonda, e ormai

vien la sera, e siam lungi dalle celle”.

Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai

nei celesti orti fiorire le stelle”.

Questo apprezzamento cordiale dell’aspetto buono e luminoso di ogni cosa e di ogni essere facilita e allieta la vita. Esso ci dà la luce e la forza per liberarci da quell’atteggiamento di scontentezza, di malumore, di risentimento e di ribellione contro le circostanze, contro la vita e contro Dio stesso che costituiscono l’aspetto più amaro, più tormentoso, più cieco e – diciamolo pure – più meschino, di ogni nostro dolore o avversità.

Si osa criticare Dio, accusarlo di insensibilità, di durezza e di crudeltà verso di noi e verso gli altri, senza rendersi conto di quanto sia enorme e ridicola la presunzione implicita in quelle reazioni, senza ricordare quante volte noi stessi, a distanza di tempo, abbiamo dovuto riconoscere la funzione spiritualmente benefica del dolore.

Occorre saper vedere l’azione di Dio, anche quando ci sembra dura o avversa. Victor Hugo ha scritto un fine apologo a questo riguardo:

Le cheval doit être manichéen.

Arimane lui fait du mal, Ormus du bien;

Tout le jour, sous le fouet il est comme un cible,

Il sent derrière lui l’affreux maître invisible,

Le démon inconnu qui l’accable de coups;

Le soir, il voit un être empressé, bon et doux,

Qui lui donne à manger et qui lui donne à boire,

Met de le paille fraîche en sa litière noire,

Et tâche d’effacer le mal par le calmant,

Et le rude travail par le repos clément;

Quelqu’un le persécute, hélas! mais quelqu’un l’aime.

Et le cheval se dit: “Ils sont deux”. C’est le même.

Vi sono molti che attestano che l’apprezzamento, la lode e la gratitudine hanno un potere che si potrebbe chiamare “magico” sulle stesse circostanze: aprono le vie, dissolvono ostacoli e attirano il bene.

Comunque, è certa la mirabile trasformazione interna che esse producono. Essa è descritta con grande efficacia in un nobile e profondo libretto spirituale La vita interiore semplificata pubblicato dal Padre G. Tissot (Torino, Roma, ed. Marietti).

Modo di dire il “grazie”. Ma come vuolsi accettare la sofferenza? Lo dico subito: con riconoscenza. Dico con riconoscenza, e non con gioia: la gioia spesso non dipende da me. Dio me la dà come ricompensa, ma la riconoscenza sempre dipende da me. A bella prima e per un’anima che non vi sia abituata, può sembrar difficile arrivare alla riconoscenza, sotto la stretta del dolore. Ma in realtà io credo che sia più facile dire un grazie risoluto che gemere pazientando. Per ottenere questo ci vuole uno slancio di generosità: dico uno slancio, perché ciò non si fa bene se non con un balzo del cuore.

Quando la sofferenza incombe, io mi decido ad un atto brevissimo, generosissimo: “Mio Dio, GRAZIE!”, ed è tutto. Non c’è bisogno di insistere su questo atto, di ripeterlo febbrilmente, come per stabilire violentemente nell’animo tutt’a un tratto, in modo permanente, uno stato fisico di lieta riconoscenza. No, io non ho che a contentarmi di questo atto, di questo grazie rapidamente e vivamente pronunciato. Quando voi mi fate un regalo, io vi dico un semplice grazie cordiale, e questo grazie basta alla mia riconoscenza e alla vostra beneficienza, perché vi dice che il mio cuore ha compreso la vostra generosità. Così devo io agire con Dio, quando si degna di farmi il grande regalo, il dolore: “Mio Dio, GRAZIE!”. Com’è eloquente questo grazie…! Dice a Dio che ho compreso la Sua azione e il Suo amore. Una parola fra amici dice tante cose…!

Il fiume della gioia. E nell’anima mia, quale effetto produce! Mi pare che, nello sprigionarsi, questo “grazie” abbia fatto nelle profondità un’apertura; ma ciò succede in tali profondità, che prima non avrei mai creduto ad una tale immensità del mio essere. I sensi qui non hanno più parte alcuna. Dunque in siffatte profondità, prima come sconosciute, il grazie che me le rivela, io sento da una fessura misteriosa (si direbbe che questo grazie è come un colpo di lancetta che ha aperto la fessura), sento, dico, scaturire una sorgente fino allora pure sconosciuta, una sorgente che, talvolta d’un solo getto, talvolta lentamente, riempie le mie più intime profondità. L’anima è inondata di un’acqua saporosa, di una gioia così dolce, così calma, e così penetrante, che nessun’altra gioia proveniente dal di fuori può esserle messa a confronto (parte II La via pp. 70-71).

Essa crea in noi quell’armonia, quella serenità, quella pace profonda che nulla può turbare e in cui l’anima cresce come il sacro fiore (il loto) sulle acque tranquille. (Luce sul Sentiero).

In queste belle pagine vi è una frase che merita di essere particolarmente notata: “il grazie è dire a Dio che ho compreso la Sua azione e il Suo amore”. Ecco il segreto, la chiave magica: la comprensione, la comprensione trasforma tutto!

TOUT COMPRENDRE POUR TOUT AIMER

Roberto Assagioli

Lascia una Risposta