Ascoltare in modo profondo
“Ascolto profondo” significa prestare una completa attenzione all’altro e al suo racconto. Non solo quindi al racconto dell’altro ma all’altro nella sua interezza, di cui il racconto verbale è una manifestazione.
L’ascolto è “profondo” quando si fonda su disponibilità, accoglienza, non giudizio e non critica, attenzione concentrata, capacità di dimorare con calma nel silenzio, ascolto di sè.
L’ascolto profondo è molto importante per ognuno nella conoscenza e comprensione di sé e per realizzare incontri con gli altri positivi e intimi.
Nelle relazioni d’aiuto (volontari, insegnanti, educatori, infermieri, assistenti sociali, counsellor, psicologi, psicoterapeuti, medici, ostetriche, fisioterapisti, etc) saper offrire un ascolto profondo è una competenza fondamentale.
L’ascolto profondo è un atteggiamento di fondo (anche in questo senso “profondo”) attraverso il quale stabiliamo una relazione; non è solo uno dei vari interventi che si utilizzano nella cornice di una relazione d’aiuto, quali le domande, gli inviti ad elaborare, le riformulazioni o le interpretazioni. È molto di più che rimanere in silenzio ad ascoltare l’altro che ci parla e si racconta.
L’ascolto profondo nasce da un interesse per gli altri e da una attitudine a prendersi cura
Per poter parlare di ascolto profondo sento di dover partire dal raccontare alcune cose del mio percorso come medico e poi psicoterapeuta. Penso infatti che ciò che siamo nel momento presente è iscritto nella nostra storia, e ciò di cui ci occupiamo, che ci sta a cuore e che ci appassiona, disegna una traccia di senso nella nostra vita.
Io ho scelto di diventare medico riconoscendo una mia attitudine, propensione al prendermi cura; questa propensione viene un po’ dalla mia natura ma anche dalla mia storia.
Ho scelto di laurearmi nell’ambito della “Medicina Interna”, ovvero della medicina generale ospedaliera perché non mi andava di occuparmi di un organo ma mi affascinava la cura della persona, nella sua interezza, nella molteplicità dei suoi piani e livelli di esistenza e di manifestazione.
Giovane medico nella Clinica Medica 2 dell’ospedale Universitario di Careggi, a Firenze, ricordo che mi piaceva incontrare le persone, conoscerle, parlarci. Raccogliere le anamnesi, ovvero le storie mediche da inserire nella cartella clinica, era un’attività di cui si occupavano gli studenti ma io ho sempre continuato a raccogliere e scrivere anamnesi perché è un modo per conoscere ed entrare in contatto con le persone.
Mi piaceva trattenermi a parlare con le persone ricoverate e presto ho scoperto l’importanza del comodino come strumento per conoscere un po’ di più i pazienti. Accanto al letto, anche nelle camere di ospedale, si trova un comodino. Quando le persone entrano in un reparto ospedaliero indossano il pigiama o una tuta e si spogliano lasciando con i loro abiti anche i loro ruoli, le loro abitudini, i loro gusti; entrando in ospedale lasciano tutti gli oggetti cari e familiari, comodi e rispecchianti, presenti nelle loro case.
Sul comodino però si trovavano alcuni, di solito pochi, oggetti attraverso i quali il paziente ricrea e ritrova uno spazio proprio; il microcosmo del comodino era per me una porta che dava sulla vita vissuta di quelle persone, sui loro valori (perché quando lo spazio è poco bisogna fare delle scelte su cosa è prioritario) sui loro pensieri e sulle loro emozioni. A volte i pazienti portavano con sé un libro, una foto di persone care, una immagine sacra, qualche oggetto personale… Ho scoperto che il comodino è una straordinaria occasione per conoscere le persone al di là della malattia.
In quel periodo lavoravo moltissimo dividendomi tra reparto di degenza, ambulatorio e laboratorio di ricerca. Ero considerato bravo nella ricerca e i miei superiori mi chiedevano di trattenermi molto in laboratorio. Nel tempo che spendevo in reparto mi accorsi che si assisteva, nel volgere di pochi anni, ad un importante cambiamento: i pazienti rimanevano in reparto per periodi sempre più brevi, dovevano fare il maggior numero di esami nel minor tempo possibile, il tempo passato ai computer prendeva il sopravvento sul tempo speso con i pazienti e i colleghi…. Oggi si auspica una inversione di tendenza e si parla di umanizzazione delle cure, di ritorno ad una medicina in cui ci sia più tempo e spazio per l’ascolto, il dialogo, l’attenzione alla persona nella sua interezza.
Così, quasi per reazione ai cambiamenti che osservavo e per colmare una lacuna che sentivo nel mio percorso formativo di medico, decisi di iscrivermi ad una scuola di psicoterapia. Fu una scoperta: se mi piaceva prendermi cura delle persone, l’aspetto psicologico, psico-sociale, psico-somatico e psico-spirituale, mi permetteva di interagire nella forma più ampia con le persone.
Dopo la specializzazione in psicoterapia decisi di fare una seconda specializzazione in Psicologia Clinica Medica (che oggi non esiste più ed è stata valutata equipollente alla specializzazione in Psichiatria) e alla fine lasciai la Clinica Medica per lavorare come Psicologo-Clinico e come psicoterapeuta. Le mie scelte professionali anche successivamente sono sempre state guidate da un interesse per le persone e in particolare per la persona che ho davanti nel momento dell’incontro (la sua vita, la sua storia…).
Nel parlare di ascolto profondo vorrei testimoniare che un ascolto profondo è possibile solo se siamo operatori della relazione d’aiuto con un interesse genuino e forte per gli esseri umani (le persone ci devono piacere!!) e se abbiamo una attitudine al prenderci cura.
Le qualità dell’ascolto profondo
Vi sono delle qualità dell’ascolto profondo che ne costituiscono la natura più intima e imprescindibile. Ecco un breve elenco delle principali:
► DISPONIBILITA’
L’ascolto profondo si fonda su una disponibilità di chi lo offre che incontra e risponde ad un bisogno di una persona, di un utente, di un paziente; solitamente si tratta di un bisogno di essere ascoltato, compreso, aiutato.
Per quanto riguarda il bisogno dell’utente, può essere inutile o perfino dannoso offrire un ascolto profondo senza aver appurato se la persona che lo riceve, lo desideri veramente, o sia realmente disponibile nel momento presente.
In quanto operatori, per poter dare ascolto profondo bisogna essere disponibili a darlo. Non può essere dato per scontato che l’operatore che è chiamato per ruolo a offrire ascolto profondo sia in quel momento disponibile.
Anni fa fui colpito da un lutto familiare; presi solo una breve sospensione dal lavoro e sostenni ugualmente un primo colloquio. È stato quasi l’unico caso in venti anni di questo lavoro come Psicologo Clinico e psicoterapeuta che una persona non abbia proseguito con incontri successivi al primo. La paziente mi telefonò dopo qualche giorno e gentilmente mi spiegò che aveva deciso di compiere il percorso con un’altra psicoterapeuta. Il dolore mi rendeva non disponibile e l’altra persona nell’incontro l’aveva percepito nitidamente.
Le possibili cause di non disponibilità di un operatore sono numerose: un disagio psicologico come un lutto, una forte preoccupazione, un forte affaticamento, uno stato ansioso o depressivo…
► ACCOGLIENZA
Per accogliere possiamo intendere in primo luogo FARE SPAZIO dentro di noi.
Nel Buddhismo, a questo proposito, viene usato il concetto di “mente di principiante”; significa avere una mente che sa vedere le cose come le vedrebbe qualcuno che non le ha mai viste, come se le osservasse per la prima volta. Si tratta quindi della capacità di avere occhi nuovi anche se dentro di noi esistono esperienze precedenti, preconcetti, teorie e conoscenze stratificate, valori strutturati, pregiudizi.
Nella relazione d’aiuto, siamo chiamati a porci come principianti della vita e della manifestazione dell’altro.
Il libro “101 STORIE ZEN” a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps (ed Adelphi) si apre con questa breve storia intitolata Una tazza di tè:
Nan-in
un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un
professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì a contenersi. “È ricolma.
Non ce n’entra più!”.
“Come questa tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e
congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”
Fare spazio dentro di noi per offrire ascolto profondo richiede quindi di avvinarsi all’altro svuotandosi di preconcetti, opinioni e congetture.
Fare spazio dentro di noi significa essere pronti ad accogliere l’inatteso, ciò che va oltre schemi consolidati e aspettative.
Altro aspetto fondamentale dell’accoglienza è la capacità di ascoltare e di valutare dentro di noi quanto l’altro ci offre, senza giudicare. Valutare vuol dire osservare e discriminare quanto ci viene comunicato in termini neutrali senza esprimere un giudizio in termini di “giusto” o “sbagliato”, “buono” o “cattivo”, “bello” o “brutto”. Anche questo atteggiamento di non giudizio a parole sembra facile e scontato ma poi nella pratica è una delle difficoltà maggiori: riuscire a fare sentire l’altro libero di esprimersi e non giudicato.
Con il non giudizio esprimiamo un rispetto profondo per l’altro.
Io cerco, nel trasmettere un senso di accoglienza, di curare in particolar modo lo sguardo e il sorriso.
Mi alleno ad uno sguardo che comunichi apertura amorevole e ascolto non giudicante.
Mi alleno ad un sorriso accogliente, come un saluto sulla porta di casa. Un sorriso che rassicura: “varca questa porta e io ci sono, ad accoglierti”.
► PRESENZA /ATTENZIONE
La nostra mente è per natura fluttuante, dinamica, facilmente distraibile.
Dare ascolto profondo è una pratica di concentrazione dell’attenzione nel momento presente, sull’altro, sulla relazione, sulle personali risonanze. Spontaneamente la nostra mente si distrae se si annoia o sposta la propria attenzione come meccanismo di difesa dal dolore, che empaticamente l’ascolto ci evoca.
Offrire presenza significa riportare la mente al presente dell’ascolto profondo ogni volta che la mente se ne va altrove.
Un aspetto particolarmente difficile è mantenere la presenza quando i silenzi si fanno prolungati. A volte un utente vuole l’incontro ma rimane in silenzio, anche per tempi consistentemente lunghi.
► CALMO DIMORARE NEL SILENZIO
Il silenzio è parte viva dell’incontro con l’altro.
Il silenzio è comunicazione (non assenza della comunicazione). Nel 1967, il famoso psicologo Paul Watzlawick espresse questo concetto nel primo assioma della comunicazione: “non si può non comunicare”.
Ci sono due aspetti dello stare nel silenzio da considerare nella relazione d’aiuto:
1. RIMANERE IN SILENZIO DELL’OPERATORE
L’ ascolto profondo è un atteggiamento di fondo che si accompagna anche a interventi di verbalizzazione da parte dell’operatore quali domande, inviti a elaborare, riformulazioni, interventi psicagogici / educativi. Di base però l’ascolto profondo si fonda su un prevalente stato di silenzio accogliente dell’operatore.
Come operatori talvolta fuggiamo il silenzio perché lo interpretiamo come qualcosa di sgradevole e inopportuno, come una perdita di tempo, con impazienza, o come un rifiuto o a volte perfino come un atto di sfiducia o aggressivo.
Possiamo invece imparare a rimanere nel silenzio e a accogliere e comprendere l’eventuale disagio che provoca in noi.
Come operatore della relazione d’aiuto, nello stare in silenzio posso imparare a comunicare un calmo dimorare di attesa, una morbida presenza.
Nei gruppi di meditazione che conduco con regolarità dopo la pratica guidata ci diamo un tempo di condivisione dell’esperienza fatta. Nella condivisione i partecipanti imparano a donarsi ascolto profondo; spesso tra la condivisione di una persona e quella dell’altra ci sono lunghe pause; si percepisce un silenzio non disagevole ma comodo, morbido, accogliente, pieno di presenza.
2. ACCOGLIERE IL SILENZIO DELL’ALTRO
Ciò che il silenzio dell’utente comunica va compreso in base alla conoscenza dell’altro e della nostra relazione. Poter comprendere il silenzio implica lo stare nel silenzio, accettarlo senza fuggirlo.
L’utente può avere silenzi più o meno lunghi; a volte sono conseguenza di una difficoltà ad esprimersi, di bisogno di tempo per raccogliere le idee e trovare le parole, della paura di essere travolti dalle emozioni, un blocco momentaneo.
A volte il silenzio può esprimere sentimenti, vissuti, atteggiamenti specifici della storia della persona oppure specifici di quel percorso, di quell’incontro o di quel preciso momento. Quindi il silenzio si manifesta come comunicazione da accogliere e utilizzare nella relazione.
► PRENDERSI TEMPO / DEDICARE TEMPO
L’ascolto profondo ha bisogno di tempo. Per ascoltare in modo profondo dobbiamo fermarci, soffermarci.
Siamo in un’epoca in cui ci si aspetta che tutto si compia con rapidità. Molto, nelle nostre relazioni così come nell’accesso alle informazioni, è a portata di pochi click. Nelle relazioni d’aiuto i ricoveri ospedalieri sono spinti verso la brevità maggiore possibile, i medici di medicina generale sembrano a volte passare da un paziente all’altro come in una catena di montaggio; anche tra le psicoterapie vanno diffondendosi i metodi brevi e strategici. Più che alla quantità del tempo speso nella relazione di aiuto, si mette l’accento sulla qualità di questo tempo. Ma per l’ascolto profondo avere a disposizione un tempo adeguato, sufficientemente lungo, è un requisito fondamentale e imprescindibile perché quel tempo sia anche un tempo di qualità, un tempo messo a frutto.
Aprire all’ascolto dell’altro in modo profondo, con le qualità che stiamo descrivendo, richiede tempo ed è incompatibile con la fretta. Quando ci immergiamo nelle profondità emotive, affettive, spirituali dobbiamo infatti prevedere un tempo di immersione e di emersione adeguato.
I tempi non possono essere d’altro canto troppo lunghi perché subentra la stanchezza, la dispersione, la deconcentrazione.
Bisogna quindi scegliere tempi adeguati (né troppo brevi, né troppo lunghi) perché l’incontro possa aprirsi all’ascolto profondo e questa scelta dei tempi è un’arte che si affina con l’esperienza.
► SAPER USARE IL LINGUAGGIO DELLA PERCOSANA CUI E’ DEDICATO L’ASCOLTO
Altro aspetto pratico dell’ascolto profondo che si impara con l’esperienza è la capacità di usare un linguaggio familiare all’utente nei termini e nelle metafore. Il linguaggio usato, se rispetta il livello culturale e le passioni e gli interessi dell’utente, lo fa sentire accolto, ascoltato, compreso, rispecchiato e rispettato. Gli permette quindi con maggiore facilità di aprirsi.
► INTEGRAZIONE & INCLUSIVITA’
Nell’ascolto profondo l’attenzione non è solo al racconto che si accoglie ma alla persona tutta intera. La persona viene vista in tutti i suoi livelli: fisico-corporeo, psicologico, relazionale, spirituale. L’ascolto profondo non è compatibile con la scissione della persona nei suoi diversi aspetti e con l’enucleazione nel colloquio di soli aspetti di interesse da parte dell’operatore. Dare ascolto profondo non è quindi fare un’intervista basata su domande selezionate che interessano a me operatore in quel momento (si tratta in questo caso di interviste mirate in cui l’ascolto profondo può essere perfino controindicato).
Oggi sarebbe impensabile affrontare aspetti psicologici senza accogliere aspetti relativi al corpo o allo spirito. E viceversa non è possibile attuare un ascolto profondo circoscrivendo il piano spirituale senza accogliere il piano relazionale o fisico, o quello psicologico. Per quanto riguarda
la comunicazione, per attuare un ascolto profondo possiamo porre particolare attenzione alla comunicazione
paraverbale e non verbale. Per comunicazione paraverbale, si intende il modo in
cui qualcosa viene detto con particolare riferimento al tono, alla velocità, al
timbro, al volume, della voce. Per comunicazione non verbale si intende invece
tutto quello che si trasmette attraverso le espressioni del volto, la propria
postura, i propri movimenti, ma anche attraverso la posizione occupata nello
spazio e gli aspetti estetici (il modo di vestire o di prendersi cura della
propria persona).
Attuare un ascolto
profondo nel rispetto
dell’integrità della persona vuol dire anche accogliere ambivalenze,
contraddizioni; spesso quando ci osserviamo in profondità e narriamo aspetti di
noi intimi ci accorgiamo di essere portatori di desideri e bisogni
contrastanti, di avere atteggiamenti e comportamenti volti a finalità opposte.
Tutto questo non è strano o immaturo ma fa parte del nostro normale modo di
essere. Nell’ascolto profondo accogliamo queste ambivalenze e contraddizioni e
insieme all’utente ne prendiamo piena consapevolezza.
L’ ascolto profondo tiene insieme, non separa, non divide, non spacca.
► ASCOLTO DI NOI STESSI
Nell’ ascolto profondo mentre ascoltiamo l’altro ascoltiamo anche noi stessi. Per portare avanti un ascolto profondo è necessario e imprescindibile saper ascoltare noi stessi.
L’incontro con l’altro nella relazione d’aiuto ci genera una molteplicità di risonanze. Tanto più profonda e duratura è la relazione e tanto più profonde e toccanti possono essere queste risonanze; ma nella mia esperienza anche un singolo incontro può lasciare una traccia indelebile.
L’ascolto di noi stessi ascoltatori, avviene per lo più mentre ascoltiamo; è importante quindi imparare a riconoscere quanto avviene in noi durante l’incontro senza che questa attenzione ci allontani e ci distragga dall’ ascolto profondo dell’altro. Siamo chiamati a sviluppare un ascolto “bifocale” (come le lenti degli occhiali che ci permettono di spostare rapidamente lo sguardo e di mettere a fuoco ciò che è vicino e ciò che è lontano).
Un aspetto particolare dell’ascolto di noi stessi è quello che nella tradizione psicoanalitica viene chiamato “Contro Transfert”, ovvero quell’insieme di risonanze (e conseguentemente di atteggiamenti e comportamenti) che possiamo avere in ragione della nostra storia e delle nostre esperienze precedenti.
Da quanto detto finora, possiamo ben comprendere che l’ascolto profondo è un processo attivo, non passivo.
Ostacoli all’ascolto profondo
In varie situazioni di lavoro in ospedale ci troviamo in contesti fisicamente e organizzativamente complessi e difficili per poter attuare un ascolto profondo. Un setting poco adeguato alla relazione d’aiuto non è però un ostacolo in senso assoluto all’ ascolto profondo. Il Setting principale infatti è dato dall’atteggiamento interiore. Per diversi anni ho lavorato come psicooncologo presso l’ospedale di Careggi a Firenze e per un periodo ho incontrato persone e tenuto colloqui abitualmente nel deposito delle sedie a rotelle in fondo al corridoio del vecchio reparto di Oncologia Medica; in chirurgia dove in mancanza di meglio andavamo con i pazienti nella stanza dei farmaci, che era una piccola stanza senza finestre. A volte, in altri reparti, addirittura il setting era dato da un angolo della stanza e da un tono di voce basso.
Vi sono anche ostacoli relazionali all’ ascolto profondo legati a come i diversi membri di equipe multidisciplinari percepiscono gli altri professionisti delle relazioni d’aiuto. Questi ostacoli sono più evidenti in alcune strutture complesse come gli ospedali.
Gli ostacoli principali all’ ascolto profondo sono però, per lo più, interiori: la nostra presunzione (non solo superbia ma soprattutto, in senso etimologico, il nostro pensare di sapere già), il nostro egocentrismo, la nostra stanchezza, il livello di distrazione dovuto a preoccupazioni riguardanti noi stessi o le persone cui vogliamo bene, il nostro stato di malessere che può manifestarsi sul piano psichico/fisico/relazionale/spirituale.
Come ci si prepara ad un ascolto profondo
Le qualità dell’ascolto profondo che abbiamo prima elencato non si improvvisano. Sono il frutto di lunghi allenamenti. In teoria l’allenamento allo sviluppo e al mantenimento di queste qualità non finisce mai. Anche gli ostacoli all’ ascolto profondo si imparano a riconoscere e trasformare con il tempo e l’impegno. In generale possiamo dire che vi è una preparazione di fondo all’ ascolto profondo che consiste nel coltivare, senza sosta, la nostra crescita come persone e come operatori della relazione d’aiuto.
Vi è poi una preparazione quotidiana all’ ascolto profondo collegata ai nostri momenti di pratica della relazione d’aiuto. È importante che ogni operatore trovi il proprio modo di sintonizzarsi sull’ ascolto profondo. Per quanto mi riguarda, ad inizio di ogni giornata lavorativa sento la necessità di dedicare qualche momento a prepararmi al lavoro come medico, come psicoterapeuta, come psicologo clinico.
Si tratta di un piccolo rituale per calarmi più serenamente ed efficacemente nel ruolo. Questo piccolo rituale prevede un momento di raccoglimento psico-spirituale. Siccome poi io indosso raramente il camice ma ci tengo particolarmente a indossare un atteggiamento che caratterizzi il mio esserci nella relazione d’aiuto, almeno una volta a settimana leggo una check-list con elencate alcune qualità e competenze che vorrei sviluppare ed esprimere. Inoltre, all’interno di ogni incontro con un utente o paziente, riporto ogni tanto la consapevolezza su tre attitudini che reputo fondamentali e centrali e che cerco poi di esprimere deliberatamente in qualche misura: fiducia, benevolenza, ascolto profondo. Cerco di esprimere questi tre aspetti non solo attraverso le parole ma soprattutto attraverso lo sguardo, la postura, il tono della voce; una comunicazione quindi “globale”.
Conclusioni
Nelle relazioni d’aiuto un intervento che non si fondi sull’ ascolto profondo a volte può funzionare, ma nella maggior parte dei casi può essere poco efficace o addirittura rivelarsi dannoso e perfino disastroso.
Tengo molto a questa considerazione e per sottolinearla desidero condividere un episodio personale che riguarda un momento difficile e doloroso della mia vita in cui mi sono trovato dal lato dell’utente.
Con mia moglie, Letizia, abbiamo perso il nostro secondo figlio per un distacco di placenta al 6° mese di gravidanza. Il bimbo è morto poco dopo il parto cesareo per la prematurità e per la sofferenza dovuta al distacco di placenta. Il giorno dopo ero a fianco di mia moglie in una stanza del vecchio reparto di maternità dell’Ospedale di Careggi; una stanzona a cinque-sei letti dove donne con gravidanze a rischio erano insieme a donne con le doglie e a mamme che avevano già partorito. Ad un certo punto è entrato un anziano padre francescano che avevo visto altre volte in altri reparti dello stesso ospedale. Aveva sguardo luminoso e sorriso aperto ma quel giorno era particolarmente frettoloso. Quando dalla porta ha salutato dicendo “come stanno queste belle mamme?” mia moglie è scoppiata a piangere… Il frate ha salutato brevemente le varie donne e poi si è avvicinato all’ultimo letto in fondo dove ci trovavamo. Gli ho spiegato in poche parole la situazione. E lui con poche parole ci ha congedato: “vedrete che la prossima volta andrà meglio; confidate nel Signore”. Poi si è girato ed è scomparso nel corridoio. Le lacrime di mia moglie hanno ripreso a scendere copiose perché i medici ci avevano da poco detto che probabilmente non avrebbe potuto affrontare altre gravidanze.
Porto questo esempio per fare capire bene come una relazione d’aiuto, di qualsiasi tipo, anche se principalmente sul piano spirituale, quando manca di ascolto profondo, possa portare ad una parola superficiale e perfino dannosa.
L’Ascolto profondo non si può fare sempre perché richiede molto: molta energia, molta concentrazione, molto impegno. Si riesce quindi ad attuarlo per dei periodi, dei momenti più o meno lunghi, nella relazione d’aiuto ma quando riusciamo ad attivarlo è un dono che offriamo a noi stessi e all’altro. È un dono perché, un ascolto profondo avvicina e porta senso di condivisione, offre spunti preziosi di crescita personale a chi si porta e a chi ascolta, permette alle parole di diventare strumento di gentilezza, di felicità e di pace.
AB febbraio 2021