testi e foto di Patrizio Caini
biologo, ricercatore, analista comportamentale, giornalista pubblicista
Per la rubrica:Curiosità e misteri nel mondo della psicologia, antropologia e spiritualità
Presso la cittadina araba di Ma’an, nel sud della Giordania, sorge Petra[1], nota anche come la Città delle Tombe[2] o la Città Rosa[3], l’antica capitale del regno dei Nabatei, dichiarata dall’U.N.E.S.C.O. (United Nations Educational Scientifical and Cultural Organization: Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), una delle agenzie dell’O.N.U. (Organizzazione delle Nazioni Unite), patrimonio culturale dell’umanità. Alcuni studiosi l’hanno identificata con Sela, che significa “roccia”, una città menzionata nell’Antico Testamento, in cui si legge che fu la capitale del regno di Edom. Secondo la tradizione, Petra fu fondata da un leggendario re di nome Rekemos e forse i suoi abitanti la chiamarono Rekeme o Reqem. La Città delle Tombe, fondata nel IV secolo a.C. e conquistata – anche se sarebbe più corretto dire, colonizzata – dai romani nel 106 d.C., durante la reggenza dell’imperatore Traiano, fu una delle principali tappe poste sul ramo della Grande Via della Seta che attraversava il Medio Oriente, fino al cuore della penisola arabica. Petra è l’unica città al mondo ad essere stata completamente scavata nella roccia e i beduini del deserto sostengono che, durante la fuga dalla terra d’Egitto, Mosè vi si fermò con il suo popolo. La eco di questa vicenda, a metà strada tra la tradizione e il mito, risuona ancora oggi nel nome del fiume Wadi Musa (“Torrente di Mosè”), che un tempo scorreva in questa zona.
Nei dintorni della Città Rosa sono stati rinvenuti antichissimi reperti risalenti al Paleolitico ed al Neolitico (10000 – 5000 a.C.) mentre gli scavi archeologici effettuati a Petra hanno portato alla luce resti di insediamenti attribuiti agli Edomiti, popolazione che, a partire dal II millennio a.C., si stabilì in questa zona. I Nabatei, un’etnia semitica[4] originaria del deserto e dedita al nomadismo, arrivarono nel sud della Giordania, dall’Arabia, tra il VI ed il IV secolo a.C., stabilendosi nel paese di Edom e cacciando, nel 500 a.C., gli Edomiti dalla Città delle Tombe. Durante il periodo Ellenistico e Romano, Petra fu la capitale del regno dei Nabatei, che fecero di questa città uno dei principali snodi del traffico viario commerciale del Medio Oriente, uno strategico crocevia di antiche vie carovaniere lungo le quali gli aromi della penisola arabica, la seta cinese, le spezie indiane e l’incenso venivano trasportati dal sud dell’Arabia verso la Palestina, i paesi che si affacciavano sul Mar Mediterraneo, l’Egitto e la Siria. I Nabatei resistettero eroicamente agli attacchi del generale greco Antigono nel 312 a.C. e sotto il re Areta III, estesero la propria egemonia fino a Damasco, l’odierna capitale della Siria. Nel 63 a.C. i romani, nella speranza di impadronirsi di Petra, sferrarono un attacco improvviso alla città ma l’impresa fallì; nel 25 a.C. ci riprovarono sotto l’imperatore Augusto, il quale intraprese una campagna militare nel sud dell’Arabia al fine di esercitare il controllo sul commercio delle spezie ma anche questa impresa non andò a buon fine. Augusto, tuttavia, riuscì ad aprire una via di collegamento per mare tra la penisola arabica e la città di Alessandria, attraverso il Mar Rosso ed il fiume Nilo, in Egitto. Secondo alcuni storici ed archeologi, questa deviazione del traffico terrestre costituì il principale motivo del graduale declino della Città delle Tombe, del suo progressivo spopolamento e della fine del regno dei Nabatei. Quando nel 106 d.C. Petra fu conquistata dai romani, pare senza che i suoi abitanti avessero opposto la minima resistenza, Traiano fece di Bosra, in Siria, la nuova capitale della Provincia d’Arabia, nonché la sede del presidio militare. All’epoca della conquista romana di Petra, i Nabatei già non esistevano più e la popolazione della città coesistette con quella romana per oltre un secolo. Nel 363 d.C., in epoca bizantina, la Città delle Tombe fu quasi completamente distrutta da un violento terremoto, a seguito del quale iniziò a perdere sempre più importanza anche come snodo della via carovaniera. Riacquistò un certo lustro durante le campagne militari europee in Terra Santa, periodo in cui i cavalieri crociati vi eressero ben tre forti. L’ultimo personaggio storico a visitare Petra, prima che cadesse nell’oblio per quasi sei secoli, fu il sultano mamelucco Baybars, che vi si recò nel 1276 durante un viaggio verso Karak, dopodiché venne riscoperta, nella primavera del 1812, dall’audace viaggiatore ed esploratore anglo-svizzero Johann Ludwig Burckhardt (1784 – 1817). Burckhardt, buon conoscitore della lingua araba, aveva sentito più volte parlare di Petra durante i frequenti viaggi effettuati da Damasco al Cairo, l’odierna capitale dell’Egitto. L’esploratore anglo-svizzero, noncurante dei pericoli a cui sarebbe andato incontro, decise che fosse giunto il momento di andare a cercare Petra, per farla conoscere al mondo intero, tuttavia, l’accesso all’antica città era interdetto ai non mussulmani, perciò escogitò un fantasioso stratagemma, grazie al quale riuscì ad entrare nella Città delle Tombe senza essere scoperto. Indossò abiti di fattura tipicamente araba, facendosi passare per un mercante mussulmano, assunse il nome arabo di Sheik Ibrahim ibn Abdallah e fece sapere di aver fatto voto ad Allah di sacrificare una capra sulla tomba in cui la tradizione ritiene riposino le spoglie mortali del profeta Aronne, fratello di Mosè. Con il tempo riuscì a guadagnarsi la fiducia e ad accattivarsi le simpatie dei beduini del luogo, convincendone due ad accompagnarlo, attraverso il Siq, all’interno della città. Una volta giunto ai piedi di El-Khazneh Firaun, Burckhardt realizzò, all’insaputa dei beduini che lo avevano accompagnato, uno schizzo del monumento rupestre sulle sue vesti, dopodiché visitò il resto della città ed al crepuscolo, si recò sulla tomba di Aronne, situata non molto lontano da Petra, sulla cima di Gebel Haroun, un’alta collina rocciosa sovrastante la città, dove sacrificò la capra. I resoconti di Burckhardt sulla riscoperta di Petra furono resi di dominio pubblico nel 1822, suscitando grande interesse e curiosità in tutta Europa, soprattutto in Inghilterra. Dopo Burckhardt, altri viaggiatori si recarono nella Città Rosa, seguendo le orme dell’esploratore anglo-svizzero; prima, Irby e Mangles, due ufficiali della Marina Britannica, poi fu la volta dei francesi De Laborde e Linant ed infine, nel 1846, del duca di Luynes, un archeologo francese che ebbe il merito di avviare i primi studi scientifici, tuttora in corso, su Petra. Anche Thomas Edward Lawrence[5] (Tremadoc, Galles, 1888 – Bovington, Dorset, 1935), più conosciuto come Lawrence d’Arabia, si recò, durante gli anni in cui viaggiò in lungo e in largo per il Vicino e Medio Oriente, nell’antica capitale del regno dei Nabatei. Come altri prima di lui, anche Lawrence, indomito avventuriero ed agente segreto di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, si lasciò travolgere dalla bellezza dell’antica città nabatea, a tal punto da descriverla magnificamente nei suoi diari di viaggio.
Persino la potente industria cinematografica di Hollywood non è rimasta insensibile al fascino antico di Petra. Chi ha visto il terzo episodio della saga di Indiana Jones, infatti, intitolato “Indiana Jones e l’Ultima Crociata”, diretto da Steven Spielberg, con Harrison Ford e Sean Connery – che, nel film, oltre a vestire i panni di un maldestro ma geniale professore di Storia Medievale, è anche il padre di Indiana Jones, Henry Jones – non può non ricordarsi delle suggestive sequenze finali ambientate proprio a Petra. I due protagonisti percorrono a cavallo il Siq, fino a giungere di fronte a El-Khazneh Firaun, che, nella finzione filmica, è il luogo segreto dove, per oltre 800 anni, un cavaliere crociato ha gelosamente custodito quello che è ritenuto essere l’oggetto mistico-esoterico più potente di tutti i tempi, il Santo Graal, la leggendaria coppa in cui, secondo la tradizione, il figlio di Dio bevve il vino durante l’Ultima Cena e dove Giuseppe d’Arimatea, facoltoso mercante, membro del Sinedrio e discepolo segreto di Gesù, raccolse il sangue di quest’ultimo durante la crocifissione. L’interno di El-Khazneh Firaun, sempre nella finzione filmica, è disseminato di trappole e trabocchetti mortali, che Indiana Jones riesce comunque a superare fino a recuperare il Graal, per poi perderlo nuovamente nelle viscere della terra al termine della pellicola.
Per entrare a Petra, il visitatore è costretto ad attraversare una stretta gola situata a oriente, il Siq, che in arabo significa “gola”, un canalone scavato dal fiume Wadi Musa nel massiccio calcareo dello Higiaz. Il Siq si snoda per quasi un chilometro e mezzo attraverso le pareti a picco di due rilievi, che raggiungono un’altezza di 80 metri. In alcuni tratti della stretta gola, le cui pareti di arenaria[6] rossa, in alcuni punti, sono sia decorate sia intagliate, è ancora oggi possibile scorgere le tracce di una conduttura in ceramica situata in una cavità della roccia ed un tempo impiegata per rifornire di acqua potabile la città. Al termine del canalone, che in alcuni punti arriva ad essere largo appena un metro, il viaggiatore si trova improvvisamente di fronte a quello che gli archeologi considerano l’opera architettonica più bella, più celebre e più misteriosa della città: El-Khazneh Firaun (Figura 1), che significa il “Tesoro del Faraone”. La facciata, in chiaro stile ellenistico ed alta 32 metri, è suddivisa in due parti: quella inferiore è caratterizzata da un portico corinzio e da un frontone, quella superiore, invece, presenta sei colonne, un timpano spezzato ed un piccolo tempio circolare al centro, detto thólos, munito di copertura conica e adornato con statue. El-Khazneh Firaun è il primo monumento rupestre di Petra che si incontra al termine del Siq.
Gli archeologi non sono ancora riusciti a stabilire esattamente quale fosse la natura di questa opera risalente al I secolo a.C.; alcuni studiosi ipotizzano che fosse una tomba, altri un tempio, altri ancora una sorta di forziere. Nonostante l’archeologia non abbia ancora svelato il mistero che avvolge questo edificio, la maggioranza degli studiosi concorda nell’assegnargli una valenza sepolcrale e, quindi, nel ritenerlo una tomba, anche alla luce del fatto che, a Petra, la maggior parte delle opere architettoniche è rappresentata proprio da tombe. Il nome di questo monumento funebre trae origine dalla leggenda del tesoro che un faraone non ben identificato avrebbe nascosto all’interno dell’urna posta in cima all’edificio. Tra i beduini locali, era in uso sparare con i fucili contro l’urna, in quanto si credeva che all’interno di essa fosse celato un favoloso tesoro e, così facendo, si sperava di essere sommersi da una pioggia di monete; fortunatamente, tale usanza è stata proibita ed ora il monumento è tutelato come il resto della città. Più nell’interno, al centro di Petra, si può ammirare uno splendido teatro romano (Figura 2), perfettamente conservato, risalente all’inizio del I secolo d.C. e costituito da 33, secondo alcune fonti, o 34, secondo altre, ordini di gradini scavati nella roccia, in cui trovavano comodamente posto fino a 3000 persone. Sulla parete rocciosa che sovrasta il teatro, si aprono alcune grotte sepolcrali, antiche vestigia appartenenti ad una necropoli parzialmente distrutta nel momento in cui i romani decisero di costruire il teatro.
Al centro della valle vi sono le rovine dei santuari all’aperto, dietro i quali sono state rinvenute le fosse sacre, le cosiddette favisse, contenenti una grande quantità di oggetti votivi. Nella città bassa è possibile ammirare una strada lastricata, con colonne, alcuni templi, il mercato, un ginnasio, le terme, il palazzo reale e ciò che rimane di alcune abitazioni del popolo. Sul fondo della strada, sorge, maestoso, il massiccio roccioso di El Khubtha, sulla cui parete sono stati ricavati alcuni dei sepolcri rupestri più interessanti di Petra, le cosiddette “Tombe Reali”, sei monumenti funebri costruiti dal I al V secolo d.C. Una delle più famose opere architettoniche della Città Rosa ed uno dei più grandi sepolcri costruiti dai Nabatei, è, senza ombra di dubbio, la “Tomba dell’Urna” (Figura 3), anch’essa ricavata dalla roccia di un fianco di El-Khubtha. La facciata, imponente, è caratterizzata dalla presenza di quattro alte semicolonne che sorreggono un doppio architrave, sovrastato da un frontone con un’urna che ha conferito il nome alla tomba. Tra le due semicolonne interne, in basso, vi è una porta, sormontata da una grande finestra; altre tre finestre sono situate più in alto e corrispondono ad altrettante tombe. Di queste tre finestre, quella centrale, rialzata rispetto alle altre due, corrisponderebbe alla tomba del re Malichos II (40 – 70 d.C.).
Nel 447 d.C., nel periodo bizantino, la “Tomba dell’Urna” venne adibita a chiesa cristiana dal vescovo Jasone, il quale apportò qualche modifica alla struttura interna e fece costruire gli archi disposti su due piani che sorreggono la scalinata attraverso la quale si accede all’edificio. Nello stesso periodo, la città di Petra diventò sede di un episcopato. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce anche camere sepolcrali pubbliche e le inquietanti tombe a pozzo, in cui i criminali venivano gettati ancora vivi. Percorrendo un suggestivo sentiero (Figura 4), anch’esso pazientemente scavato nella roccia, dopo circa un’ora, si giunge a El-Deir (Il Monastero), la cui maestosa facciata è stata intagliata su un fianco del massiccio roccioso di Gebel-el-Deir (La Montagna del Monastero). Come El-Khazneh Firaun, anche El-Deir è stato costruito su due piani, di cui quello superiore ospita, al centro, il thólos. I monumenti rupestri di Petra, costruiti dai Nabatei, risalgono tutti ad un periodo compreso tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.
Gli archeologi che condussero i primi studi sistematici sulle antiche vestigia della capitale del regno dei Nabatei rimasero perplessi dall’assenza di abitazioni, fatto che li indusse ad ipotizzare che questo misterioso popolo vivesse in tende o in grotte scavate nella roccia. I ricercatori, tuttavia, escludono la possibilità che le abitazioni dei Nabatei fossero di legno; la maggioranza di essi, invece, propende per l’ipotesi secondo cui Petra fosse una città di tende, a meno che i Romani, quando conquistarono la città, avessero distrutto tutte le abitazioni prima di insediarvi la loro colonia. Gli archeologi hanno rinvenuto, all’interno di alcuni monumenti funebri, camere crematorie mentre in altri sepolcri sono state scoperte celle dove i ricercatori ritengono che i prigionieri venissero murati vivi! Lo stile architettonico di Petra è inconfondibile ed unico nel suo genere; nei suoi edifici si distinguono influenze greche, romane, assire ed egiziane, tra loro armoniosamente integrate ed elaborate con elementi architettonici originali introdotti dai Nabatei. Questo popolo, inoltre, sviluppò un ingegnoso sistema di irrigazione che si basava sullo stoccaggio dell’acqua piovana all’interno di grandi vasche scavate nella roccia e poste sulla cima delle colline rocciose che circondano Petra. Da queste vasche di raccolta, il prezioso liquido scorreva a velocità vertiginosa all’interno di una rete di canali pendenti, anch’essi scavati nella roccia, raggiungendo ogni angolo della città. I Nabatei, inoltre, deviarono il corso di alcuni fiumi, impiegando un sistema di argini, in modo tale da convogliare l’acqua delle piene, che seguivano un andamento ciclico, in canali sotterranei. In questo modo venivano accumulate risorse idriche da sfruttare nei periodi di siccità, oltre ad evitare inondazioni che avrebbero potuto travolgere il centro urbano. Grazie ad un’intelligente gestione dell’acqua piovana, quindi, essa veniva omogeneamente distribuita in tutte le zone della città e l’intera popolazione ne poteva usufruire in abbondanza. Questa mirabile opera di ingegneria idraulica consentì agli antichi abitanti di Petra di rendere fertile il deserto e di fare dell’agricoltura una delle colonne portanti del potere economico della città. La potenza e la ricchezza di Petra, oltre che al controllo delle rotte commerciali e a una fiorente agricoltura, erano dovute anche al fatto che ben pochi nemici avevano il coraggio di attaccarla, protetta com’è da una barriera naturale, pressoché impenetrabile, costituita da catene montuose (Figura 5) che la circondano quasi interamente, ad eccezione di uno stretto canalone, il Siq, che rappresenta ancora oggi l’unico accesso agevole alla città. Il pantheon religioso dei Nabatei era popolato principalmente da divinità legate alla fertilità e ciò risulta chiaro quando si considera che parte della ricchezza e della potenza della civiltà nabatea proveniva dai prodotti della terra del deserto, resa fertile grazie all’ingegnoso sistema di stoccaggio dell’acqua piovana ed al complesso dei canali di irrigazione messi a punto da questo geniale popolo. La principale divinità di Petra era Dusharra, simboleggiata da massi ed obelischi sparsi un po’ ovunque nella città.
Uno dei misteri più intriganti della Città delle Tombe consiste nel declino della civiltà che l’ha resa così florida e nel suo improvviso spopolamento, un mistero che molti storici ed archeologi hanno tentato e stanno tuttora tentando di svelare ma che sembra resistere al tempo ed alla scienza. Secondo l’architetto Pietro Laureano, incaricato dalla monarchia giordana di sviluppare un piano per restaurare e preservare i monumenti rupestri di Petra, danneggiati dagli agenti atmosferici, il crollo della civiltà nabatea e l’abbandono della Città Rosa da parte dei suoi abitanti non sono riconducibili ad invasioni di popoli nemici o a sconvolgimenti climatici, come nel caso della fine dell’Antico Regno in Egitto, del declino della civiltà Maya in Mesoamerica o della fine della cultura minoica nell’isola di Creta[7]. Lo stesso Alessandro Magno, infatti, non riuscì a conquistarla ed i romani la controllarono solo dal punto di vista amministrativo; inoltre, da recenti studi paleoclimatologici, è emerso che, per alcune migliaia di anni, il clima della regione non ha subito variazioni di rilievo. Il Dott. Laureano ipotizza che il declino della civiltà nabatea sia dovuto principalmente ad un fattore di ordine economico, per la precisione, ad una diminuita richiesta di incenso e seta, due dei principali prodotti commerciati a Petra, ed al fatto che le carovane deviarono, a favore di altre rotte, dai percorsi originari che un tempo portavano alla Città Rosa. Venendo a mancare le principali risorse economiche, fu più difficile per gli abitanti di Petra mantenere in buono stato il sistema di canalizzazione dell’acqua e di irrigazione dei campi, fatto, questo, che ridusse sensibilmente l’estensione delle coltivazioni e dei giardini. Il calo della produzione agricola impoverì ulteriormente la città e la progressiva scomparsa della vegetazione, che agiva da barriera naturale contro il vento e la sabbia del deserto, fu indirettamente responsabile della corrosione degli edifici del centro urbano. Gli ultimi abitanti di Petra, dopo il periodo bizantino e l’epoca dei crociati, erano piuttosto inclini al nomadismo e gradualmente abbandonarono la città; con lo spopolamento, le condizioni del sistema idrico e dei canali di irrigazione peggiorarono ulteriormente, portando al declino strutturale di tutta la città.
Tra il dicembre del 1989 ed il gennaio del 1990, mi recai, prima in Siria e poi in Giordania, dove ebbi l’opportunità di visitare, per due indimenticabili giorni, la Città delle Tombe. Come molti personaggi del passato, anche i moderni viaggiatori, se desiderano entrare a Petra, devono attraversare il Siq, percorrendo un polveroso sentiero tracciato nella sabbia del letto asciutto del fiume Wadi Musa. I turisti possono scegliere se farlo a piedi, su un calesse trainato da un ronzino o in sella ad un cavallo; io optai per il cavallo e, senza indugi, ne noleggiai uno. Ricordo che era un esemplare di dimensioni ragguardevoli, anche se un po’ avanti con l’età, e che la sua indolenza nel camminare era pari alla sua reticenza nell’eseguire i comandi che gli impartivo. Avrei voluto spronarlo al galoppo ed entrare a Petra in modo trionfale, come immaginavo avessero fatto, prima di me, re, guerrieri, esploratori ed avventurieri nel corso dei millenni, tuttavia, l’unico risultato che ottenni fu di imbizzarrirlo, a tal punto che, ad un certo momento, si alzò sulle gambe posteriori, facendomi quasi cadere all’indietro; se non mi fossi aggrappato con forza alla criniera, mi sarei sicuramente sfracellato su una di quelle dure rocce spigolose disseminate lungo il sentiero. Persa ormai ogni speranza di attraversare il Siq al galoppo, approfittai della lenta andatura del mio cavallo per ammirare le pareti a picco della stretta gola e gustarmi ogni centimetro quadrato della variopinta roccia naturalmente impreziosita da venature di colore rosa-rosso che si insinuano in una matrice giallastra, come un serpente che, avanzando, contorce il proprio corpo per evitare gli ostacoli posti lungo il suo percorso. Ricordo che il rumore degli zoccoli del cavallo riecheggiava per tutto il canalone e mi accompagnò fino al punto in cui il Siq si apre sul piazzale dominato da El-Khazneh Firaun. Dopo avere contemplato l’imponente facciata di questa splendida opera architettonica ed averne visitato l’interno, avanzai per alcune decine di metri e, finalmente, di fronte a me, si aprì la vallata di Petra, nelle cui pareti i Nabatei scavarono la capitale del loro regno. Petra è unica nel suo genere ed il viaggiatore che ne percorra le strade e ne visiti gli splendidi monumenti rupestri, viene letteralmente sopraffatto da un’ondata di intense emozioni, sensazioni così forti che è quasi impossibile descriverle esaurientemente, sebbene molti viaggiatori ed esploratori del passato e del presente abbiano tentato di farlo, senza, tuttavia, riuscire mai del tutto nell’impresa. Visitare Petra costituisce una straordinaria esperienza visiva, culturale ed emozionale e le sensazioni che essa è in grado di suscitare in chi vi si addentri, si succedono ad un ritmo frenetico, senza sosta. Ritengo che a rendere unica questa antica città non siano tanto o solo, i monumenti rupestri, quanto piuttosto l’irreale armonia con cui tali monumenti si fondono con la roccia dalla quale sono stati estratti e nella quale sono stati plasmati. È un’armonia che conferisce unità al tutto, lasciando, al contempo, il proprio spazio vitale ad ogni edificio, che, quasi come se avesse consapevolezza di sé e del paesaggio che lo circonda, continua a vivere autonomamente ed indipendentemente dall’ambiente circostante. Mi guarderò bene, quindi, dal prodigarmi in parole e frasi ad effetto, nel vano tentativo di trascinare i lettori in un luogo dove la realtà supera le più ardite fantasie e dove l’immaginazione non riesce ad arrivare compiutamente, rimandando i lettori più interessati ai resoconti di viaggio, ben più impressivi ed eleganti, di illustri personaggi del passato e del presente che si sono recati nella Città delle Tombe.
Nei due giorni trascorsi a Petra, io ed i miei compagni di viaggio udimmo distintamente e a più riprese, strani boati sordi in lontananza, misteriose detonazioni ovattate che sembravano provenire da tutte le direzioni e di cui era pressoché impossibile stabilire l’origine. Per alcune ore non accennai all’argomento, constatando che i miei compagni di viaggio si comportavano come se non sentissero alcun rumore, poi, il ripetersi del fenomeno e la curiosità di condividere con il resto del gruppo questa strana esperienza, mi spinsero a farlo presente agli altri. Alcune delle persone più distratte che facevano parte del mio gruppo di viaggio mi dissero che non vi avevano fatto caso, rapite, com’erano, dalla sublime bellezza della Città Rosa, altri avevano udito, come me, quegli strani boati ma erano rimasti in silenzio, perché ritenevano che la visita della città non dovesse essere in alcun modo “disturbata” da distrazioni di sorta. Animato da un’irresistibile curiosità, mi rivolsi alla guida locale chiedendogli se anche lui udisse quei rumori, che, in alcuni momenti, ricordavano molto da vicino colpi di mortaio o scariche di artiglieria, mentre in altri, erano più simili ad esplosioni di candelotti di dinamite, di quelli impiegati per scavare i fianchi delle montagne al fine di ricavare la roccia per la costruzione di edifici. La guida mi rispose che quei boati li sentivano tutti nella zona, da molto tempo e con una certa frequenza ma nessuno era in grado di dire cosa fossero o dove avessero origine. Sempre più affascinato da questo esotico rompicapo, chiesi se le detonazioni che udivamo potessero essere provocate dalla deflagrazione di materiale esplosivo fatto brillare in cave di roccia situate nelle vicinanze o se vi fossero poligoni militari in cui quel giorno si svolgessero esercitazioni, con l’impiego, magari, di proiettili di artiglieria pesante o di potenti esplosivi. Queste due situazioni, infatti, avrebbero potuto giustificare in modo plausibile quei rumori, tuttavia, la guida mi disse che, per quanto ne sapevano i locali, non vi erano cave di roccia né installazioni militari nel raggio di centinaia di chilometri. Ricordo di aver valutato anche la possibilità che i misteriosi boati fossero bang sonici prodotti da aerei supersonici nel momento del superamento del muro del suono, tuttavia, se la causa fosse stata quella, avrei dovuto assistere al passaggio di un gran numero di aerei ma per quanto avessi scrutato il cielo, non riuscì a vedere alcun velivolo, né sopra di me né da altre parti. Per un attimo pensai che fossero tuoni, tuttavia, scartai subito anche questa eventualità, in quanto le condizioni meteorologiche erano ottime, il cielo terso e completamente sgombro da nuvole ed il fenomeno sonoro troppo frequente e regolare. Dato che la zona è montuosa, presi, infine, in considerazione la possibilità che ciò che udivamo fosse il rumore generato dalle rocce che si staccavano dalle pareti dei rilievi, scivolando lungo i fianchi delle montagne. Se vi fosse stata una frana, infatti, i rumori da essa prodotti avrebbero potuto ricordare i sordi boati omnidirezionali descritti sopra, tuttavia, le “detonazioni” che noi tutti udivamo erano continue, brevi e piuttosto regolari, il che portava a concludere che da qualche parte o da più parti, vi fossero frane e smottamenti che si susseguivano uno dopo l’altro ad un ritmo frenetico, un’eventualità, questa, a mio parere piuttosto remota. Sebbene non escludessi a priori alcuna di queste possibilità, ognuna delle quali aveva una sua plausibilità, ad eccezione di quella che chiamava in causa i bang sonici ed i tuoni, e non le escluda tuttora, a distanza di 31 anni, presi in considerazione anche una sesta possibilità, meno convenzionale, certo, ma pur sempre meritevole d’attenzione: i “Cannoni Invisibili”, noti anche come “Cannoni di Barisal”. Si tratta di un fenomeno sonoro consistente in una serie, a volte anche piuttosto lunga, di inesplicabili e misteriosi rumori omnidirezionali di natura ed origine ignote, che ricordano una successione di esplosioni o cannonate, da cui la prima denominazione. La seconda denominazione, invece, trae origine dal nome di un villaggio, Barisal, appunto, situato ad ovest dello sbocco principale del Gange, il fiume sacro dell’India, a circa 70 miglia a sud di Dacca. I primi a richiamare l’attenzione su questi misteriosi boati, descritti come cannonate, furono, nel diciannovesimo secolo, alcuni viaggiatori inglesi, che li udirono mentre attraversavano le Sunderbunds, le estese paludi attraverso le quali il Gange si ramifica prima di riversare le proprie acque in mare. Nel 1865 il colonnello Godwin Austen udì i “Cannoni di Barisal” in Bhutan, ai piedi della catena dell’Himalaya, e nel 1895 il colonnello H.S. Olcott li sentì presso i villaggi di Barisal e Chilmari, sul fiume Brahmaputra, tuttavia, il merito di aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica questo insolito fenomeno sonoro fu dell’esploratore G.B. Scott, il quale udì, per la prima volta, i “Cannoni Invisibili” nel 1871 mentre da Calcutta si recava, attraverso le Sunderbunds, nell’Assam. Scott racconta che il giorno in cui udì i “Cannoni di Barisal”, le condizioni meteorologiche erano buone ed il cielo sereno; nel silenzio della notte, presso Barisal e Morelgunge, lontano da villaggi e abitazioni, l’esploratore inglese udì, ad intervalli regolari, un rimbombo sordo che ricordava molto da vicino quello di cannoni. Come a Petra, anche in quella circostanza, vi erano momenti in cui il fenomeno si manifestava con singole detonazioni, anche piuttosto distanziate nel tempo, ed altri in cui i boati erano in serie, uno di seguito all’altro e sempre lontani o almeno, davano l’impressione di esserlo. Vi sarebbero diversi luoghi, nel mondo, dove questo fenomeno si manifesterebbe con una certa regolarità. Misteriosi boati ricondotti ai “Cannoni Invisibili”, infatti, sarebbero stati segnalati e verrebbero tuttora uditi, in varie località dell’Inghilterra, della Scozia, dell’Irlanda e dell’Islanda, al largo delle coste del Belgio, in diverse regioni della Siberia e degli Stati Uniti d’America, in particolare nello stato del Montana, sulle Montagne Rocciose e sulle Colline Nere degli stati del Wyoming e del Dakota e persino a Haiti. Charles Sturt, durante il viaggio che nel biennio 1828-1829 lo portò alla scoperta dei fiumi Darlin e Murray, in Australia, descrisse i “Cannoni Invisibili” come un rumore non terrestre, simile a quello prodotto dall’esplosione di una carica di artiglieria. Un’altra testimonianza molto interessante venne rilasciata nel 1908 da H.L. Richardson, il quale udì, mentre si trovava in Australia, tre detonazioni nell’aria, apparentemente ad alta quota, subito seguite da uno strano rumore, della durata di diversi secondi, simile al sibilo provocato da una fuga di vapore. Più recentemente, nel 1965, i membri dell’equipaggio di una nave mercantile battente bandiera giapponese udirono, ad est dell’isola di Sakhalin, numerosi boati di origine e natura ignote; i marinai, in un primo momento, li attribuirono ad esercitazioni militari effettuate da imbarcazioni sovietiche, tuttavia, in seguito, constatata l’assenza di natanti nella direzione di provenienza delle detonazioni, li ricondussero al passaggio di aerei supersonici. Il fenomeno dei “Cannoni Invisibili” suscitò talmente tanto interesse che il Ministero della Difesa britannico istituì una speciale commissione d’inchiesta incaricata di chiarire la natura delle misteriose detonazioni, tuttavia, dopo un po’ di tempo, su ordine di qualche alto esponente del governo, convinto che le indagini sugli enigmatici boati fossero solo una perdita di tempo, dato che, molto probabilmente, non avrebbero portato ad alcuna conclusione soddisfacente, la commissione venne sciolta e gli studi sui “Cannoni di Barisal” interrotti. Uno dei ricercatori incaricati di fare luce sul mistero dei “Cannoni Invisibili” ebbe a dichiarare che, probabilmente, si trattava di un fenomeno naturale, nonostante non fosse chiaro se avesse origine nell’atmosfera, in mare, sulla terra o sotto di essa. Alcuni studiosi hanno addirittura ipotizzato che i “Cannoni di Barisal” siano bang sonici determinati dal passaggio di più oggetti volanti non identificati da una velocità moderata ad una molto elevata, in modo analogo a quanto accade quando un aereo supersonico passa da una velocità inferiore a quella del suono ad una superiore. I fautori dell’ipotesi extraterrestre ritengono che quanto da loro postulato sia avallato dal fatto che i “Cannoni Invisibili” vengono uditi, con una certa regolarità, proprio là dove gli avvistamenti di U.F.Os. (Unidentified Flying Objects: Oggetti Volanti Non Identificati, O.V.N.I., in italiano, francese e spagnolo) sono più frequenti, ossia nelle cosiddette window-zone (“zone-finestra”), note anche come hot-spot (“punti-caldi”). Al di là delle teorie bizzarre e un po’ fantasiose, ve ne sono altre che propongono un’interpretazione del fenomeno in chiave scientifica. Una di esse prende in considerazione la possibilità che i “Cannoni di Barisal” abbiano un’origine sotterranea e che siano prodotti dall’esplosione di sacche di gas naturale situate a grande profondità nel sottosuolo. Un’altra teoria propone uno stretto legame tra questo fenomeno e lo spostamento di grandi masse litoidi nella crosta terrestre. Purtroppo, però, nessuna delle ipotesi fino ad ora formulate sembra inquadrare il problema in modo convincente e nonostante alcuni studiosi si sforzino di comprendere la natura di questo fenomeno, la soluzione appare ancora molto lontana. Personalmente, ritengo che i “Cannoni di Barisal” siano un fenomeno naturale, ancora in gran parte ignoto alla scienza, su cui questa, purtroppo, non ha ancora preso posizione, almeno ufficialmente, e che abbiano origine nel sottosuolo, essendo probabilmente legati alla struttura geologica del territorio dove vengono uditi.
Bibliografia.
– “Petra e le città morte della Siria”, di Valerio Manfredi. Istituto Geografico De Agostini – Novara, 1983.
– “Giordania”. Edizioni Plurigraf. Narni – Terni, 1988.
– “Capolavori del genio umano – Le più grandi costruzioni di tutti i tempi”. Selezione dal Reader’s Digest – Milano, 1989.
– “Non è terrestre”, di Peter Kolosimo. Sugar Editore, 1968.
– “Almanacco del mistero 1992”. Sergio Bonelli Editore, 1992.
– “UFO Dossier X. Incognite, Alieni, Enigmi dell’Universo”. Fabbri Editori.
– “Nuova
Enciclopedia Universale Curcio – delle lettere, delle scienze, delle arti”.
Armando Curcio Editore, 1968.
[1] Petra: il nome deriva dal termine “pietra” e si riferisce al fatto che la città è scavata nella roccia.
[2] Città delle Tombe: Petra è conosciuta anche con questo nome in quanto la maggior parte delle opere architettoniche che vi vennero realizzate è costituita da tombe e monumenti sepolcrali.
[3] Città Rosa: l’altra denominazione con cui Petra è conosciuta, in virtù del peculiare colore rosa-rosso della roccia nella quale è stata scavata.
[4] Secondo quanto riportato nell’Antico Testamento, i semiti sono i discendenti di Sem, uno dei tre figli di Noè. Gli altri due sono Cam e Iafet.
[5] Thomas Edward Lawrence: ufficiale, agente segreto di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra e scrittore; fu anche archeologo orientalista. Durante la Prima Guerra Mondiale, sfruttando abilmente la sua conoscenza della lingua e della psicologia degli arabi e facendo leva sull’astio che il popolo arabo nutriva nei confronti dell’impero turco ottomano, riuscì a riunire le varie tribù di beduini sotto il comando di Faisal e a indurle a ribellarsi ai turchi. Dallo Higiaz, la rivolta arrivò a Damasco nel 1916 e ad Aleppo nell’ottobre del 1918. Lawrence condivise in tutto e per tutto lo stile di vita dei beduini arabi e fu l’indiscusso protagonista di un’impresa incredibile, diventata quasi leggenda, che egli stesso narrò nel suo libro “La rivolta nel deserto” (1927), ripubblicato postumo, poco dopo la sua morte, con il titolo “I sette pilastri della saggezza” (1935).
[6] Arenaria: roccia sedimentaria più o meno compatta, costituita da granuli rotondeggianti o spigolosi derivati dalla disgregazione di un solo tipo di roccia (arenaria monogenica) o di rocce differenti (arenaria poligenica) e cementati da sostanza calcarea, argillosa, ferruginosa, ecc. La composizione mineralogica delle arenarie può essere molto varia, con prevalenza di quarzo (SiO2), ortoclasio, rutilo, zircone, mica, tormalina, ecc. La diversa associazione di tutti questi minerali determina la varietà dell’arenaria, che, qualora sia compatta e resistente, costituisce un discreto materiale da costruzione, essendo comunemente impiegata per pavimentare le strade, come pietra da taglio, per gradini, soglie, ecc.
[7] Secondo recenti studi, l’improvviso declino della civiltà minoica, avvenuto intorno al 1400 a.C., fu determinato dalla catastrofica esplosione del vulcano della vicina isola di Thera, conosciuta anche come isola di Santorini, che alcuni ricercatori hanno voluto identificare con il mitico continente perduto di Atlantide.